Piazza Tahrir e la riscoperta dello spazio pubblico del Cairo. Una conversazione con Costanza La Mantia.

Published on Domusweb in Italian and English

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ML: Premessa. La ragione per parlare del Cairo dal punto di vista della piazza divenuta simbolo della primavera araba nel contesto di una rubrica dedicata al rapporto tra forme ed energia è che le immagini ed il racconto che seguiranno mostrano bene il legame tra politica e forma dello spazio pubblico. E poiché la questione energetica non è che una parte di una più vasta problematica ecologica (che riguarda tanto gli equilibri ambientali quanto quelli sociali) di natura ampiamente politica, con questa conversazione affrontiamo uno dei nodi centrali impliciti nel passaggio dall’energia fossile (centralizzata e monopolistica) all’energia solare (piccola generazione diffusa e distribuita): il nodo politico di una società in cui le tecnologie di rete, tanto per la produzione di energia quanto per la comunicazione tra persone, spingono verso una democratizzazione della società.

Ovvero verso una restituzione alla gente dei mezzi di produzione energetica così come verso un maggiore diritto alla parola, alla libertà individuale e collettiva.

Costanza La Mantia, urbanista, ricercatrice indipendente con lunga esperienza in Egitto e membro di INURA International Network for Urban Research and Action, ha seguito da vicino le vicende del Cairo ed ha in particolare studiato le successive trasformazioni di piazza Tahrir, presentandole nell’ultimo incontro INURA in Messico.

Costanza: E’ vero, il parallelo tra la filosofia di una co-generazione a rete, e di una società a rete, dove le risorse di ognuno formano uno stock di “bene collettivo”, calza a pennello. Di fondo il piano della discussione è lo stesso e tira in ballo tanto la necessità di nuovi paradigmi politico-sociali che i modelli di sviluppo alternativo emergenti (non solo in termini energetici).

Il caso particolare egiziano ha ovviamente ragioni specifiche, legate ad una politica esplicitamente repressiva verso le libertà individuali, in un contesto dove il livello delle diseguaglianze sociali e le violazioni dei diritti umani e civili da parte del Governo sono molto più evidenti che da noi. Ma allo stesso tempo la Rivoluzione Egiziana ha in comune con altri movimenti di protesta alcune ragioni e modalità che hanno caratterizzato il 2011 come la stagione di una sorta di “risveglio collettivo”. Non a caso, al di là delle opportune differenze, l’esperienza egiziana è stata citata da altri movimenti come il 15 Mayo e Occupy Wall Street con slogan come “We are all Tahrir” o “Walk like an Egyptian”.

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ML: Ci racconti brevemente la storia della piazza e delle sue trasformazioni?

Costanza: Piazza Tahrir è una delle piazze più importanti del Cairo. Originariamente parte del letto del Nilo, il sito venne “urbanizzato” nel XIX secolo, diventando il luogo di un quartiere popolare di nome el Louq. Durante il Sultanato di Al-Nasser Mohamed Ibn Qalàwùn, divenne uno dei giardini più ricchi e lussureggianti del Cairo per tornare ad essere, dopo pochi decenni, un’area in decadenza, un mosaico di giardini e paludi. Questo sino al periodo di Ismail Pascià, detto il Khedive (1863-1879), il quale fu promotore di un progetto globale per lo sviluppo della città come la “Parigi del Medio Oriente”, trasformando il quartiere di allora chiamato Ismailia nella odierna Downtown. A quel tempo l’area era abitata da principi, nobili e personaggi famosi ed era il luogo dei più importanti edifici statali e servizi.

Nel 1952 il colpo di stato di Nasser, spazzando via la monarchia di Re Farouk, aprì in Egitto un periodo di cosiddetto “socialismo pan-arabo”, rispecchiato da quello stile modernista ed internazionale che caratterizza gli edifici Statali di quell’epoca. Nasser completò il sistema viario del centro città e le piazze, inclusa piazza Ismaila, da quel momento rinominata Midan el Tahrir (Liberation Square), per esprimere metaforicamente la liberazione dall’occupazione britannica. A seguito di operazioni di confisca delle proprietà dei residenti stranieri in nome della rivoluzione, l’area di Downtown perse la sua popolazione cosmopolita. Conseguentemente migliaia di famiglie egiziane benestanti iniziarono l’esodo dalla città, trasferendosi in zone di lusso come Zamalek o nelle periferie di recente costruzione, come Nasser City. Questo fu il momento in cui il Cairo cominciò a perdere il suo centro, espandendosi verso il deserto attraverso un sistema di nuovi quartieri periferici e “New Towns”.

Cessato lo sviluppo urbano delle aree centrali, Downtown divenne sempre più popolare, assumendo gli odierni caratteri di quartiere di residenza dei ceti medio-bassi, area densamente popolata, congestionata dal traffico e contraddistinta da un frenetico e variegato commercio minuto. Alla fine degli anni settanta la piazza appariva come un enorme rotonda, attorno cui sorgevano edifici governativi come il Mogamma, alberghi di lusso come il Nile Hilton, e le principali istituzioni culturali come lo storico campus della American University in Cairo ed il Museo Egizio. Accanto al Museo vi era un grande giardino, utilizzato da molte persone come area ricreativa.

Attorno alla metà degli anni ‘80, sotto Mubarak, il giardino venne trasformato in un enorme parcheggio per gli autobus turistici diretti al Museo, sottraendo lo spazio all’uso pubblico. La chiusura del giardino al pubblico faceva parte della politica governativa che ha caratterizzato il regime di Mubarak che tentava di scoraggiare le pubbliche assemblee. A questo punto Tahrir ospitava i simboli del potere centrale ed era anche il simbolo di quell’atteggiamento governativo totalmente incurante della qualità della vita dei suoi cittadini.

Non è un caso che la rivoluzione iniziò lì, il 25 gennaio 2011.

Successivamente, la piazza è stata più di una volta trasformata in una “città nella città”. Durante i primi 18 giorni di occupazione, migliaia di cairoti, estranei gli uni agli altri, hanno pacificamente collaborato per costruire in piazza un “villaggio” ben organizzato. Hanno realizzato campeggi di fortuna in certe aree, servizi igienici, bidoni della spazzatura e sistemi di gestione e riciclo, punti di distribuzione di cibo ed acqua, ambulatori, aree pubbliche per la lettura di giornali, opere d’arte, un asilo (consentendo alle madri di stare in piazza con i loro figli) e tanto altro.

 

 

ML: Cosa pensi del ruolo che hanno avuto internet e i social network in queste vicende e più in generale del rapporto che si è instaurato nel corso delle rivolte tra spazio reale e virtuale?

Costanza: Non c’è dubbio che i cosiddetti “social media” abbiano avuto una grande parte nella Rivoluzione. Innanzitutto hanno sostituito quello spazio reale che era formalmente e politicamente negato dal regime di Mubarack, il quale limitava la libertà delle persone attraverso azioni e leggi che scoraggiavano fortemente l’accesso allo spazio pubblico.

 Al di là delle politiche urbane fortemente centralizzate, a carattere privatistico ed elitario, contraddistinte dalla negazione di qualunque caratterizzazione democratica dello spazio urbano e, come denunciato più volte da Amnesty International, da pesanti violazioni dei diritti umani, vi era in particolare lo status della “Legge di Emergenza”, una legge che ha esplicitamente vietato per quasi 40 anni qualunque forma di assemblea e raduno non autorizzato negli spazi pubblici.

I social media in questo contesto sono diventati quello spazio di libertà negata e di uguaglianza che, non trovando sfogo nella cornice fisica della città, lo ha trovato nello spazio virtuale della rete: un vero “spazio democratico”, che ha anche ridotto le distanze sociali tra individui e classi che mai avrebbero instaurato una qualunque forma di dialogo per la strada. Eppure la Rivoluzione non sarebbe esistita se quello spazio virtuale non si fosse poi indissolubilmente legato a quello fisico della piazza, della città. Se la gente non si fosse incontrata, imparando a collaborare e condividere al di là delle differenze, e trasformando piazza Tahrir, sia fisicamente che nel significato, in quella “città nella città”, come più volte è stata definita dai media.

 

ML: Un altro aspetto interessante della tua testimonianza è l’esplosione di un’arte urbana che investe lo spazio pubblico di una fortissima voglia di comunicare…

Costanza: Sin dalle prime settimane la Rivoluzione ha effettivamente aperto dei canali e delle modalità di espressione e interazione del tutto nove per l’Egitto. Quasi immediata, durante la prima occupazione della piazza, è stata la creazione di un “Museo del Rivoluzione”, gestito dalla neo nata “Associazione degli Artisti Rivoluzionari”. Quistriscioni, slogan e caricature sono state quotidianamente esposte o indossate dai manifestanti durante marce e sit-in. Gli stessi manti stradali attorno alla piazza erano il supporto su cui sculture bidimensionali, dipinti, disegni, e tutto ciò che era disponibile per esprimere le idee, le richieste, le riflessioni ed aspirazioni della gente, trovavano spazio, con una grande partecipazione anche dei bambini.

L’esplosione di un modo più articolato di produrre e utilizzare l’arte per scopi sociali è stato un chiaro segno di bisogno di nuovi spazi deputati all’espressione, all’interazione ed alla discussione. Un bisogno che permea oggi una città e una società che reclama il diritto allo spazio pubblico come un nuovo spazio di costruzione per un progetto sociale e politico: la costruzione di collettività.

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ML: L’ultima riflessione che ti propongo riguarda la questione dell’auto-organizzazione e dunque l’orizzonte di una nuova dimensione pubblica, legata alla nuova consapevolezza emergente di “beni comuni” nonché all’infrastruttura tecnologica che può forse supportare una nuova gestione reticolare della dimensione collettiva.

Costanza: In realtà più che di auto-organizzazione parlerei di “auto-governance”. Un tipo di organizzazione orizzontale, caratterizzata da una flessibilità che consente una risposta veloce ed una immediata capacità di adattamento.

La lezione di piazza Tahrir è stata quella di un armonioso processo di “auto-governo”, incentrato su di una struttura a rete orizzontale, contrapposta a quella gerarchica più comune. Datosi uno scopo comune, i manifestanti si sono organizzati. Per 28 giorni consecutivi, e successivamente, le persone più diverse si sono riunite, hanno formato associazioni e gruppi di lavoro, assumendosi la responsabilità di molti aspetti della vita quotidiana in piazza, organizzando servizi igienico-sanitari e medici, sicurezza e protezione all’interno della piazza e nei vari quartieri, attività culturali e politiche, e sviluppando un sistema complesso ed estremamente efficace di comunicazione. Non hanno eletto leader formali e nessuno ha cercato di assumere il ruolo di leader, ma sia in piazza che nei quartieri la gente si organizzava liberamente attorno a dei “temi” (sicurezza, soccorsi, management e pulizia degli spazi comuni, etc) contribuendo nei modi più diversi ed in base a competenze e possibilità di ognuno.

Hanno in sintesi dato un esempio evoluto di società collaborativa.

I quartieri informali sono in questo senso un enorme laboratorio per sperimentare modelli e modalità alternativi. In questi luoghi, in assenza di una risposta istituzionale ai bisogni della gente, gli abitanti si ingegnano per dotarsi di tutti quei servizi che le istituzioni non danno, dando vita a reti sociali e di solidarietà molto forti e a straordinarie dinamiche di “comunità”.

Dal punto di vista teorico l’informalità è un sistema complesso non lineare, in cui le dinamiche sociali si intersecano e mutano in modi inaspettati: un perfetto laboratorio per lo studio di quei processi di adattamento e di innovazione richiesti dalla complessità e dalla crisi della società odierna, che deve muovere da un modello competitivo ad un modello collaborativo. Un modello in grado non solo di mettere in discussione le attuali definizioni del concetto di “sviluppo”, ma soprattutto in grado di attivare ed attingere alla cosiddetta “intelligenza collettiva” come bene comune primario.

 


 

 

 

 

 

About paesaggisensibili

Architect and senior fellow of the McLuhan Program in Culture and Technology of Toronto University, I'm a member of the board of directors of the Italian National Institute of Architecture (IN/ARCH) in Rome, where since 2003 I am in charge of the Institute Master Programs. My studies are rooted in the fields of architecture and philosophy of science with a special interest in biology and anthropology. Key words for my research are: Man, Space, Nature, Technique, Webness, Ecology, Relations, Interactions, Resources, Energy, Landscape, Footprint, Past and Future. My goal is to build critical understanding of the present to suggest useful strategies to build the future.

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