Sulla strana realtà del virtuale

Sulla strana realtà del virtuale, è stato pubblicato in “Mediazioni. Spazi, linguaggi e soggettività delle reti” a cura di Antonio Tursi, costa & nolan, 2005

 

Che cosa succede quando la parola passa dalla carta allo schermo? Che ne è dell’individuo nell’era della rete? Cosa significa il passaggio dall’era elettrica a quella quantica?

Tre domande, tre nodi di una rete, di un pensiero che si interroga sul rapporto tra psiche e techne: non tanto o non solo per parlare della tecnica (per fare il punto sulla vicenda dei media) ma anche e soprattutto per parlare dell’essere, dei modi del nostro pensare e sentire.

Cosa succede dunque nel passaggio dalla parola scritta a quella visualizzata su uno schermo? Nonostante in fondo gli anni trascorsi da questo passaggio siano relativamente pochi, la nostra percezione al riguardo ci dice esattamente l’opposto: il tempo che ci separa dall’era della non esistenza dello schermo sembra lunghissimo. Infatti, nonostante la più radicata confidenza con la carta, la potenza dello schermo nell’affiancarla è stata straordinaria.

Eppure, la distanza tra parola su carta e quella su schermo è enorme.

La parola sullo schermo infatti è immediatamente una parola fuori di noi: una parola già apparentemente in pulito, già conclusa, già in qualche modo pubblica, è, rispetto alla parola mano-scritta (che si offre allo sguardo e alla lettura altrui, ma mantiene intatti tutti i segni della presenza del soggetto, la sua grafia, la scelta del tratto, della consistenza, del tipo di inchiostro o di grafite, a cui potremmo aggiungere del tipo di carta e così via scendendo in una miriadedi particolari che differenziano e fanno della scrittura su carta un gesto individuale) una parola esteriore. Non che sullo schermo le differenze scompaiano: l’uso di un carattere, di una formattazione, di un colore, di modalità innovative di interpunzione o di ibridazione tra testo e immagini ascii e così via permettono certo un’appropriazione della scrittura. Ma questa è ben poca cosa rispetto alla presenza fisica nel tratto del manoscritto.

L’altra caratteristica della parola su schermo è il suo essere parola in movimento: parola che può improvvisamente sparire così come era comparsa senza minimamente lasciare traccia; ma, anche, parola disponibile ad infiniti taglia e incolla; parola per sua natura in viaggio, cioè senza qui e ora, o con un qui e ora veramente ridotto ai minimi termini. Perché da questo schermo su cui sto scrivendo scivolerà velocemente su un altro schermo: verrà visualizzata lì, e sarà subito disponibile per rimettersi in viaggio. Questa deterritorializzazione, che neanche la stampa aveva conosciuto richiedendo comunque la presenza notevole di un supporto fisico, è forse il suo tratto più determinante.

Insieme esteriorità e deterritorializzazione significano innanzitutto una predisposizione della parola ad una immediata visibilità globale o comunque ad una visibilità estesa. Predisposizione ad una dimensione non semplicemente pubblica ma specificatamente connettiva.

Una predisposizione per altro fortemente radicata in un altro aspetto caratteristico della parola su schermo, quello del duplicarsi dei sistemi di elaborazione: non più la mia mente sola con la mia mano di fronte al foglio bianco, ma la mia mente e la mia mano di fronte ad un altro sistema, con il suo occhio, le sue regole, la sua organizzazione. E, se è vero che gli aspetti fondamentali di questa altra organizzazione sono appunto la predisposizione ad una parola finita (in pulito e dunque esteriore) e ad una parola in movimento (su un supporto che è portale di interconnessione) e dunque ad una nuova dimensione connettiva della parola, l’aspetto del dialogo silenzioso con la macchina (dialogo che si interpone tra me e le mie parole), non è per nulla secondario (tanto da costringermi periodicamente a delle pause di rilettura e scrittura su carta), e ci parla di un tipo o livello di connettività che non è quello classico della parola come sistema di comunicazione tra persone ma piuttosto di un concetto di connettività più esteso e radicale. In questo caso, tra sistemi naturali e artificiali di elaborazione delle informazioni. Infatti, la parola fuori di me è già una parola dentro la macchina, una parola cioè proiettata in uno spazio altro da quello della mia testa e che, a differenza dello spazio caotico della mia scrivania (nel cui caos c’è una mia logica), è uno spazio con una sua propria organizzazione logica.

Ecco perché se l’alfabeto greco latino come prima e fondamentale tecnologia dell’elaborazione dell’informazione ha esercitato una influenza non secondaria sulle modalità di sviluppo della mente occidentale, la parola all’interno della macchina è una parola immessa in uno spazio che sfugge alla esclusività del soggetto ed ha piuttosto una dimensione oggettiva, comunitaria, costruita non intorno ad una unità fisica di vicinato (o parentela) ma intorno alla vicinanza potenziale (l’immediata possibilità di condivisione) che è propria delle tecnologie di rete.

Se ‘esistere’ significa esser-fuori (ek-sistere), quell’esistere al di fuori di un ambiente dato e stabilizzato dall’istinto, che è forse ciò che è più proprio dell’uomo1 (o ciò a partire da cui è possibile l’uomo), la parola sullo schermo è allora una nuova parola che dopo quella parlata e quella scritta, apre per l’uomo una forma ulteriore di ek-sistenza: quella al di fuori dell’individualità connaturata alla scrittura, e propria di una nuova dimensione connettiva.

Ma cos’è allora questa dimensione connettiva?

Personalmente, leggo il fenomeno come l’accesso ad una nuova dimensione spaziale che, per quanto apparentemente impalpabile o infinitamente meno sensibile rispetto a come ci era stata narrata dalla fantascienza che per prima aveva intuito l’avvento del nuovo spazio virtuale, in realtà si è estesa ben al di là di quanto era stato immaginato. Infatti, piuttosto che spazio altro e alternativo al reale, la matrice è oggi parte del nostro spazio quotidiano, e così profondamente annidata in esso da rendere difficile distinguerla. Il suo accesso non richiede deck super avanzati o interfacce neurali ma, in un certo senso, passa attraverso il richiamo sonoro del telefono: uno squillo che sottende un continuo ascolto del campo, ovvero una nostra continua presenza in rete, continua disponibilità ad essere cercati e a cercare, e a sapere, dopo temporanee interruzioni dalla rete, se siamo o meno stati cercati. In questo senso noi oggi esistiamo in una nuova matrice di interconnessioni, i cui canali non si arrestano certamente al telefono, ma di cui il cellulare, per la sua immediata vicinanza al corpo (in un raggio d’azione legato alla possibilità di sentirlo squillare oppure semplicemente di sentirlo vibrare), è il mezzo primo e fondamentale. Cellulare che non è soltanto appendice sonora vocale ma che è oggi piuttosto il primo vero schermo: quello che ci è più vicino, che ci raggiunge sempre in tempo reale, con una essenzialità che per necessità rende i suoi messaggi estremamente affilati, i suoi sorrisi estremamente espressivi.

Il resto dei mezzi con cui ci diffondiamo nella rete sono naturalmente tutte le altre appendici tecnologiche: dal personal computer (possibilmente portatile) al palmtop, dall’i-pod al navigatore satellitare, a macchine e video camere. Con queste, incessantemente, catturiamo e scarichiamo immagini, suoni, frammenti di vita e di realtà che poi manipoliamo, tagliamo, cuciamo, pubblichiamo, inviamo, linciamo… E questa rete, questa dimensione emergente, resa possibile dall’esistenza di una infrastruttura tecnica in larga parte materiale ma proiettata ben oltre questa radice materiale attraverso la scomposizione digitale, questa dimensione di connettività che influenza ormai largamente il nostro modo di essere, di vivere e di pensare è appunto la nuova dimensione spaziale in cui ormai quotidianamente esistiamo.

Dalla palafitta all’aeroplano alla rete, noi abitiamo trascendendo continuamente l’ambiente che ci è dato: abitiamo immaginando e costruendo mondi ulteriori. E in essi ulteriori forme di esistenza2.

Ecco perché il blog, la pubblicazione in rete non del diario personale ma piuttosto del proprio network, incarna la ‘forma psicologica’ più propria della rete: il publicy, la forma della contrazione (o convergenza) del pubblico e del privato, del soggetto e della matrice in cui esso si inscrive, in quello che potremmo definire un fenomeno di superamento della soggettività così come l’aveva prodotta e conosciuta l’era della scrittura classica.

La scrittura su schermo è infatti una scrittura interconnessa, non solo ipertestuale (ed oltre che multimediale), ma anche e soprattutto una scrittura che esiste se è condivisa, se circola: se esiste cioè ben al di fuori dei propri limiti perché, a differenza della scrittura su carta, è una scrittura che rischia immediatamente di essere cancellata dal tempo. A meno che la rete di interconnessioni non la renda viva e visibile.

E, in questo senso, il soggetto invischiato in questo tipo di scrittura, l’appassionato di pubblicazione in rete (perché è lì che oggi è bello essere, disponibili a costo zero e con un click) e soprattutto e ancor più chi cresce (pericolosamente?) legato più alla rete che alla carta, sa che la rete è fondamentalmente interconnessione: velocità di scambio, di battuta, di pubblicazione di qualcosa che può non essere finito, o non perfettamente finito, perché molto verrà aggiunto da ulteriori connessioni, forse proposte da chi scrive, forse operate da chi legge, all’interno comunque di uno spazio che non finisce al nostro mettere punto, ma continua infinitamente oltre.

Da questo punto di vista, l’immagine ma anche il tipo di approccio conoscitivo che più sembra aiutarci a capire la strana realtà del virtuale mi sembra venire proprio da quella fisica quantistica le cui possibili applicazioni tecnologiche potrebbero a breve ulteriormente trasformare lo scenario: perché questa ci descrive un mondo subatomico caratterizzato dalla impossibilità di isolare un sistema, di osservarlo senza perturbarlo, di conoscerlo completamente. Impossibilità, che non è epistemologica ma ontologica, e cioè relativa al modo stesso di essere della trama profonda della materia. Trama che piuttosto che di pezzi isolati, cioè di una materia fatta di cose finite, differenziate, isolabili e osservabili completamente nella loro configurazione spazio-temporale, appare caratterizzata da una sostanza fondamentale che più che essere effettivamente qualcosa di determinato è un poter essere, uno stato di pura potenzialità che sfugge ad un completo determinismo causale.

Per approfondire questa prospettiva, facciamo un salto di scala dallo spazio della nostra esperienza quotidiana allo spazio infinitesimo di un esperimento atomico, interrogandoci con Heisenberg sulla natura dei componenti ultimi della realtà.

Se ci poniamo la domanda: che cosa è una particella elementare, noi diciamo, ad esempio, semplicemente un neutrone, ma non possiamo darne una raffigurazione ben definita né spiegare che cosa esattamente intendiamo con questa parola. Possiamo usare varie raffigurazioni e descriverlo una volta come una particella, una volta come un’onda o come un complesso di onde. Ma sappiamo che nessuna di queste descrizioni è precisa. […] Se si vuol dare una precisa descrizione della particella elementare — e qui l’accento cade sulla parola ‘precisa’ — l’unica cosa alla quale si può ricorrere è una funzione di probabilità. Poi ci si accorge che neppure la qualità dell’essere (se questa può essere chiamata una ‘qualità’) appartiene a ciò che viene descritto. È una possibilità di essere, una tendenza ad essere3.

E ancora, a proposito della complementarietà tra la descrizione corpuscolare e quella ondulatoria Heisenberg scrive:

nonostante le due concezioni si escludono a vicenda, poiché una cosa non può essere allo stesso tempo un corpuscolo (vale a dire una sostanza limitata in un piccolissimo volume) ed un’onda (vale a dire un campo che si propaga per un ampio spazio). Ma l’una può essere il complemento dell’altra. Servendoci di entrambe le raffigurazioni, passando dall’una all’altra per ritornare poi alla prima, otteniamo infine la giusta impressione dello strano genere di realtà che si nasconde dietro gli esperimenti atomici.

Cosa ha a che fare tutto questo con la dimensione esistenziale della matrice? Almeno un aspetto fondamentale: il fatto cioè che al di là delle differenze, tutto ciò che esiste appare costituito da un’unica sostanza fondamentale, la cui differenziazione qualitativa è dovuta all’ordine e alla distribuzione o più semplicemente alle modalità di interconnessione tra le stesse particelle elementari (in sé perfettamente trasmutabili le une nelle altre, e dunque riconducibili ad un’unica sostanza).

Scrive ancora Heisenberg:

il mondo è ora stato diviso non in diversi gruppi di oggetti ma in diversi gruppi di connessioni. In un periodo più antico della scienza si distinguevano per esempio come gruppi diversi, minerali, piante, animali, uomini. Tali oggetti venivano assunti, secondo i vari gruppi, come di diversa natura, costituiti di materiale diverso, e determinati nel loro comportamento da forze diverse. Noi sappiamo ora che si tratta sempre della stessa materia, degli stessi vari componenti chimici che possono appartenere a qualsiasi oggetto, a minerali come ad animali o a piante; anche le forze che agiscono fra le diverse parti della materia sono le stesse in ogni genere di oggetti. Ciò che può essere distinto è il tipo di connessione che principalmente importa in un certo fenomeno.

In altri termini, ciò che la fisica quantistica ci rivela è che la sostanza fondamentale del mondo è relazionale. Perchè è nella relazione che l’essere in primissima istanza prende forma. Infatti, tornando sul concetto di particella elementare, cioè sul momento più originario della realtà, l’immagine che Heisenberg ce ne dà non è quella della unità atomica classica, cioè di un frammento infinitamente piccolo e non ulteriormente divisibile della materia così come la conosciamo nella sua consistenza quotidiana, ma è piuttosto l’immagine di qualcosa che non è un ente, una unità finita, ma è piuttosto una tendenza, una possibilità d’esistenza la cui effettiva modalità d’esistenza si configura soltanto attraverso la descrizione che la discrimina. E questo, non per un limite conoscitivo dell’osservatore ma per quella indeterminazione intrinseca che è ciò che contraddistingue il primo, o l’ultimo, livello di realtà4.

Il mondo che la fisica quantistica ci mostra dunque è un mondo assolutamente capovolto o in contraddizione con quello della nostra esperienza quotidiana, tanto che è piuttosto difficile non solo capire ma anche immaginare come lo stato di un sistema meccanico in un dato istante di tempo possa non essere univocamente definito, o che le posizioni e i momenti (le velocità) di masse subatomiche non siano ‘realmente’ collocate con esattezza nello spazio e nel tempo secondo l’indicazione di una precisa coppia di numeri, o che l’esistenza delle particelle elementari sia qualcosa di affatto diverso dall’esistenza di un albero o di una pietra.

Eppure, è proprio in questa concezione di una spazialità e di una modalità d’esistenza così radicalmente altra (tanto da rappresentare un pericoloso indebolimento del principio di realtà come sostenne calorosamente Einstein), e al tempo stesso tutta compresente e ripiegata dentro la realtà che conosciamo, che le prospettive della fisica quantistica incontrano più da vicino la nostra esperienza di esseri pensanti.

Infatti, quasi paradossalmente, il mondo descritto dalla fisica quantistica appare molto vicino all’esperienza dei confini sfumati, e di sovrapposizione di stati contrapposti, che viviamo continuamente nella nostra esperienza senti-mentale, dove non solo è impossibile osservare sistemi (oggetti-pensieri) isolati ma l’essenza stessa delle cose appare profondamente instabile, o indeterminata: dotata di uno strano tipo di realtà, a metà strada tra possibilità e realtà.

Inoltre, il meccanismo stesso del ripiegamento ovvero della coesistenza tra livelli o dimensioni di realtà differenti ma compresenti, appare in qualche modo assimilabile o confrontabile con la condizione stessa della nostra esistenza divisa tra una realtà solida, oggettiva e ben determinata, fuori di noi, ed una realtà fluida e continua, dentro di noi. Il modo cioè in cui il nostro spazio mentale e lo spazio oggettivo coesistono per noi, senza che sia per noi un eccessivo problema il passare dall’uno all’altro, distinguendo il piano del pensiero, del desiderio e del sogno da quello concreto della realtà, sembra fornirci un’esperienza diretta di come dimensioni ulteriori e diverse possano annidarsi nelle dimensioni macroscopiche più immediatamente evidenti ed osservabili.

D’altra parte, proprio quel carattere relazionale ed emergente nel conformarsi delle connessioni che sembra l’aspetto prevalente tanto del mondo dei quanta quanto di quello mentale, è anche certamente la qualità prevalente dello spazio virtuale emerso dall’ultima generazione di tecnologie di rete. Uno spazio questo la cui impalpabilità ma allo stesso tempo la forte dimensione tattile, la cui mancanza di topografia stabile e al tempo stesso la perfetta navigabilità, il cui essere non-luogo e allo stesso tempo il dar luogo ad incontri, scambi, transazioni, ma anche e soprattutto la cui intrinseca natura connettiva tra spazi, tempi, cose e forme di vita differenti, rendono un tipo di realtà che continuamente sfida la nostra capacità di comprensione. Forse, proprio perché come già altre volte nella nostra storia (come ad esempio con l’invenzione del telescopio e del microscopio, vie d’accesso all’infinitamente grande e all’infinitamente piccolo), ancora una volta abbiamo costruito un accesso ad una nuova, inattesa dimensione spaziale, la cui scoperta non può se non lasciarci sgomenti.

Infatti, così come Galileo non poteva se non riferire con meraviglia l’osservazione di un paesaggio lunare che d’improvviso si rivelava come un paesaggio terrestre5 (facendo così crollare la presunta distinzione tra corpi celesti e terrestri e più in generale tra una fisica sublunare e una sopralunare), e van Leeuwenhoeck non poteva se non osservare con meraviglia il pullulare di vita che animava una goccia d’acqua o di sangue (rivelando una nuova bio-logia o una nuova dimensione vivente dentro al vivente)6, così la nostra capacità di comprensione non può non vacillare di fronte ad uno strumento (la tecnologia di rete) che sembra aprire le porte della realtà macroscopica a quella possibilità di profonda interconnessione, tra cose distanti nello spazio e lontane per differenza di specie, che sino ad ora avevamo conosciuto soltanto come descrizione della natura microscopica o come esperienza della natura continua del nostro pensiero.

In un libro che parte da considerazioni scientifiche per approdare a visioni fantascientifiche sui possibili futuri del mondo7, il fisico Freeman Dyson collocando il futuro su varie scale temporali e discutendo come l’esplorazione e la conquista dell’universo fisico procederà insieme a quella dell’universo mentale, accenna ad un orizzonte di possibili esperimenti di coscienza collettiva e conseguentemente ipotizza che il divenire parte di una mente più grande, che superi non solo le barriere soggettive fra gli individui ma anche quelle tra le specie, renderà difficile comunicare con chi si sia attardato in ciò che oggi conosciamo come essere umano. Infatti, se centomila anni fa stavamo “imparando a diventare umani”, coloro che, forse nei prossimi mille anni, avranno avuto esperienza dell’appartenere ad una mente più grande, luogo di incontro per esempio tra la mente umana e quella di un delfino, avranno probabilmente una idea ben diversa riguardo all’essere umani.

In questo senso, più che di una ‘spiritualità quantistica’ legata al passaggio da una tecnologia della contrapposizione tra due stati elementari (0-1), alla risoluzione degli opposti nei tre stati del qubit (0, 1 e la loro coerente sovrapposizione)8, io intravedo una stupefacente e affascinante convergenza tra le esperienze che indagano sulla trama profonda della realtà fisica (portandone in luce gli aspetti connettivi), le esperienze del nostro sentire mentale, e le esperienze quotidiane di apertura della soggettività in quella nuova dimensione spaziotemporale che possiamo chiamare webness9.

Mi piacerebbe certo pensare con de Kerckhove che il passaggio dalla tecnologia digitale a quella quantica potrebbe in sé costituire un supporto al superamento della nostra natura conflittuale, ispirandoci una “riconciliazione per la sopravvivenza sulla terra”. Ma credo che, al di là di ciò che la tecnologia quantistica potrà dare, ciò che è più importante è quanto la sua teoria ci ha dato e ancora ci potrà dare, ovvero una immagine del mondo fisico per la prima volta incredibilmente vicina a quella del nostro mondo percettivo mentale. In questa riconciliazione, che mi sembra aprire una ulteriore possibilità di comprensione della strana realtà del virtuale, come spazio e come tecnica della convergenza e della connettività, trovo qualcosa di profondamente spirituale.

In questo quadro, il bisogno di capire in quale mondo –e modo di essere– ulteriore ci stiamo proiettando, resta la domanda di fondo su cui continuare a interrogarsi.

1 È questa in un certo senso la tesi centrale di Psiche e techne.
L’uomo nell’età della tecnica
. “Infatti, a differenza
dell’animale che vive nel mondo stabilizzato dall’istinto,
l’uomo, per la carenza della sua dotazione istintuale, può vivere
solo grazie alla sua azione, che da subito approda a quelle
procedure tecniche che ritagliano, nell’enigma del mondo, un mondo
per l’uomo. L’anticipazione, l’ideazione, la progettazione, la
libertà di movimento e d’azione, in una parola, la storia come
successione di autocreazioni hanno nella carenza biologica la loro
radice e nell’agire tecnico la loro espressione. In questo senso è
possibile dire che la tecnica è l’essenza dell’uomo, non
solo perché, a motivo della sua insufficiente dotazione istintuale,
l’uomo, senza la tecnica, non sarebbe sopravvissuto, ma anche
perché, sfruttando quella plasticità di adattamento che gli deriva
dalla genericità e non rigidità dei suoi istinti, ha potuto,
attraverso le procedurte tecniche di selezione e stabilizzazione,
raggiungere ‘culturalmente’ quella selettività e stabilità che
l’animale possiede ‘per natura’”, Galimberti, Umberto,
(1999) Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica,
Feltrinelli, Milano, 1999, p. 34.
2
“Il senso della tecnica è tutto qui, nel riconoscere al di là
dell’ambiente attuale un ambiente possibile, un ambiente che si
profila non per un’intuizione dell’anima, ma perché ad esso
conduce la catena degli strumenti costruiti uno dopo l’altro
secondo quella modalità che, ad ogni punto della serie, consente di
scoprire un mondo ulteriore”, Galimberti, op. cit., p. 102.
3
Questa e le citazioni successive sono tratte da Heisenberg, Werner,
(1958) Fisica e filosofia, il Saggiatore, Milano, 2003.
Corsivi miei.
4
“Un primo e molto interessante passo verso una reale comprensione
della teoria dei quanta venne fatto da Bohr, Kramers e Slater, nel
1924, i quali cercarono di risolvere l’evidente contrasto tra il
quadro ondulatorio e quello corpuscolare con il concetto di onda
di probabilità
. Le onde elettromagnetiche vennero interpretate
non come onde ‘reali’ ma come onde di probabilità […]. Il
concetto di onda di probabilità era assolutamente nuovo nella
fisica teoretica d’origine newtoniana. Probabilità in matematica
o in meccanica statistica significa un’affermazione sul nostro
grado di conoscenza della situazione effettiva. […] L’onda di
probabilità di Bohr, Kramers e Slater, tuttavia, significa qualcosa
di più di questo; essa significa una tendenza verso qualcosa. Era
una versione quantitativa del vecchio concetto di ‘potenza’
della filosofia aristotelica. Introduceva qualcosa che stava a metà
tra l’idea di un evento e l’evento reale, uno strano tipo di
realtà fisica
a metà strada tra possibilità e realtà”,
Heisenberg, op. cit. Heisenberg procede raccontandoci come
successivamente Niels Bohr (cui si deve l’ipotesi della
‘complementarità’ tra rappresentazione ondulatoria e
corpuscolare) diede una chiara definizione della quantità
matematica in questione, mostrando come essa non fosse un’onda
tridimensionale (come le onde elastiche o le onde radio), ma un’onda
in uno spazio a configurazione pluridimensionale, e perciò una
“quantità meccanica piuttosto astratta”.
5
Scriveva Galileo descrivendo la Luna: “non è affatto liscia
uniforme e di sfericità esattissima, come di essa e degli altri
corpi celesti una numerosa schiera di filosofi ha ritenuto, ma al
contrario disuguale, scabra, ripiena di cavità e di sporgenze, non
altrimenti che la faccia stessa della Terra la quale si differenzia
qua per catene di monti, là per profondità di valli”, citato in
Rossi, Paolo, (1988) “Cosa prima mai viste”, in Id. et al. (a
cura di), (2000) Storia della scienza moderna e contemporanea,
vol. 1, TEA, Milano, 2000, p. 118.
6
Scriveva van Leeuwenhoeck: “è proprio come vedere, a occhio nudo,
piccole anguille che si contorcono l’una contro l’altra e
l’intera acqua sembra viva di questi vari animaletti; e questa è
per me, di tutte le meraviglie che ho osservato in natura, la più
meravigliosa di tutte”, citato in Rossi, op. cit., p. 124.
7
Freeman Dyson, (1997) Mondi possibili, McGraw-Hill, Milano,
1998.
8
A differenza del bit, caratterizzato dalla contrapposizione tra due
stati — 0 e 1 — corrispondenti alla presenza o assenza di carica,
il qubit (unità di informazione di base del quantum computing
basata, anziché sull’uso dell’energia elettrica come sistema di
rappresentazione dell’informazione, sull’uso dei differenti
stati elettrici di un atomo) può codificare tre stati e cioè due
stati atomici distinti e uno stato di loro sovrapposizione coerente.
9
Sul concetto di webness vedi il mio testo “Webness Time”,
in de Kerckhove, Derrick (a cura di), (2003) La conquista del
tempo
, Editori Riuniti, Roma, 2003.

About paesaggisensibili

Architect and senior fellow of the McLuhan Program in Culture and Technology of Toronto University, I'm a member of the board of directors of the Italian National Institute of Architecture (IN/ARCH) in Rome, where since 2003 I am in charge of the Institute Master Programs. My studies are rooted in the fields of architecture and philosophy of science with a special interest in biology and anthropology. Key words for my research are: Man, Space, Nature, Technique, Webness, Ecology, Relations, Interactions, Resources, Energy, Landscape, Footprint, Past and Future. My goal is to build critical understanding of the present to suggest useful strategies to build the future.

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