Così la Francia reinventa dei rifugi nelle sue città

Dalla Friche di Marsiglia a Les Grands Voisins di Parigi, il padiglione francese alla Biennale di Architettura di Venezia racconta la sperimentazione di nuove forme di rifugi urbani. Realizzati affidando luoghi abbandonati a comunità in cerca di spazi.

Pubblicato su Eastwest

Parlare di Freespace, tema scelto da Farrell e McNamara per la 16. Biennale di Architettura di Venezia, nei giorni in cui la frontiera tra Messico e Stati Uniti torna tristemente alla ribalta per le immagini di bambini in gabbia, mentre in Europa ci si rimpalla l’accoglienza di navi cariche di migranti, rende più che mai evidente la necessità di una scelta di campo. Dopo almeno tre decenni di liberismo e globalizzazione, in una situazione di inaridimento degli spazi di vita in comune, di crescente marginalità urbana, con un numero di migranti quasi raddoppiato dalla soglia del millennio (oltre 250 milioni di persone in movimento), una domanda primaria emerge su tutte le altre: una domanda di rifugio. Una domanda di spazio per nascere e crescere al sicuro da guerre e siccità. Ma, anche, al di là dei costi e della segregazione del libero mercato. Una domanda che non riguarda soltanto la popolazione proveniente da oltre confine, ma che riguarda fasce sempre più ampie della popolazione di molti paesi europei, esclusa da diritti fondamentali come la casa, la disponibilità di spazi per l’infanzia e per l’adolescenza, di spazi a costi accessibili per intraprendere attività creative e produttive. Una domanda che chiama in causa il nostro modo stesso di pensare e governare la città e il territorio, le sue forme d’uso e di trasformazione.

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In questo quadro, è di estremo interesse la risposta al tema Freespace del Padiglione Francese curato dallo studio Encore Heureux e intitolato Lieux Infinis. Construire des batiment ou des lieux?. Il padiglione infatti, attraverso una raccolta di oggetti emblematici, fotografie, plastici ed un bel libro-catalogo, ci racconta la storia di 10 luoghi in cui amministrazioni cittadine ma anche soggetti privati, affiancati da architetti coraggiosi, hanno deciso di sperimentare nuove forme di rifugio, affidando luoghi bisognosi di cure a comunità (una o più associazioni) in cerca di spazi. Offrendo così i luoghi all’appropriazione “creativa” dei cittadini, spesso a costo zero per l’amministrazione e con un alto ritorno sociale, in termini di risposta ad emergenze abitative e lavorative, e di rafforzamento dei rapporti tra la comunità.

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E’ il caso per esempio di La Friche la Belle de Mai a Marsiglia, ex manifattura tabacchi, costruita nel 1868 (poi divenuta fabbrica delle sigarette Gitanes), chiusa nel 1991 e già nel ’92 affidata dalla SEITA (la società dei tabacchi) al Systéme Friche Théâtre. Sono anni in cui Marsiglia è nota alle cronache per la criminalità, la violenza, lo spaccio di droga, il basso reddito, la bassa scolarizzazione e la disoccupazione, e la la Belle de Mai è uno dei quartieri problematici della città. Nel ’95 l’architetto Jean Nouvel diviene direttore della Friche, ed è lui a definire la “road map” per il futuro del luogo: sostenere un progetto culturale per dar vita ad un progetto urbano. Qualche anno dopo un altro architetto, Patrick Bouchain, lavora con la città e la Friche per portare avanti questa visione: nel 2001 la città diventa proprietaria del sito e, attraverso la costituzione di una cooperativa, la Friche riceve un contratto di affitto-affido gratuito per 45 anni, condizionato alla realizzazione di attività per il quartiere. Nel 2008 l’ex fabbrica, con il suo mix di laboratori d’arte, spazi espositivi, sale teatrali, cinema, scuole d’arte, scuole materne ed elementari, orti di quartiere, ristoranti e la sua governance cooperativa, diventa uno dei progetti chiave che permettono a Marsiglia di esser scelta come Capitale Europea della Cultura 2013. E, attraverso i finanziamenti per il 2013, la Friche si espande ristrutturando la torre, i magazzini e trasformando l’enorme tetto in un belvedere sul Mediterraneo, diventando luogo simbolo della possibilità di innescare processi di rinascita dal basso.

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Altro “luogo infinito” è l’Hôtel Pasteur a Rennes, grande edificio nato alla fine dell’Ottocento come Facoltà di Scienze. Andato in disuso nel ’67 per lo spostamento della facoltà nel nuovo campus e occupato nel ’68 da una comunità di studenti, viene definitivamente abbandonato nel 2004. Nel 2012 ancora una volta l’architetto Patrick Bouchain convince l’amministrazione cittadina a promuovere l’appropriazione dell’edificio da parte dei cittadini, senza alcun programma d’uso prefissato ma con un architetto-in-residenza, un “architect-concierge”. L’apertura del luogo a costo zero ad iniziative locali è sufficiente ad innescare la nuova dinamica.

Dal 2013 l’Hotel Pasteur ospita playgound artistici e scientifici, laboratori di riabilitazione sportiva, corsi di francese per rifugiati, terapie di gruppo, coltivazioni di funghi, un asilo per bambini: un programma tutto legato alle specificità delle persone che lo hanno “abitato”, cioè fatto proprio, adattando via via lo spazio esistente al nuovo uso. A partire dalla “potenzialità” vista in quello spazio.

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È proprio questa potenzialità, intrinseca all’incontro tra le persone e lo spazio, parte essenziale della dimensione in-finita di questi luoghi. Ed è anche questa potenzialità ciò che l’urbanistica programmata, ed i progetti di trasformazione calati dall’alto, normalmente distruggono.

Un altro, diverso ma simile, luogo in-finito, emerge come un fiume in piena nel centro di Parigi proprio alle spalle della Fondazione Cartier, dove l’ex ospedale Saint-Vincent-de-Paul, costruito nel 1795 e abbandonato nel 2010, è diventato il più grande esperimento europeo di “pianificazione urbana temporanea”.

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Il Comune di Parigi infatti vi ha programmato la costruzione di un eco-quartiere, ma poiché i tempi di trasformazione sono lunghi, nel 2011 l’Assistance publique Hôpitaux de Paris, il sistema ospedaliero responsabile del sito, chiede all’associazione Aurore di utilizzare l’ospedale per far fronte alla crescente emergenza di senza casa. Aurore allestisce 300 posti letto ed, in un crescente rapporto di fiducia, nel 2014 riceve in gestione l’intera area (34.000 mq). Il municipio richiede però di rendere la struttura aperta al quartiere e alla città, per superare l’effetto ghetto, ed altre due associazioni diventano parte integrante del progetto: Plateau Urbain, cooperativa specializzata nel rilanciare edifici vuoti attraverso start-up e imprese sociali, e Yes We Camp architetti interessati alla trasformazione di spazi condivisi attraverso la costruzione di attrezzature temporanee e inclusive. L’idea vincente è quella che la compresenza e le capacità diverse delle tre associazioni possano dar vita ad una forma innovativa e dinamica di spazio pubblico: il tutto attraverso l’uso di risorse generate esclusivamente sul luogo, con l’affitto degli spazi (non a prezzo di mercato ma a copertura dei costi di gestione), la ristorazione e l’offerta di servizi come il camping. Les Grands Voisins, questo il nome del luogo, ad oggi ha ospitato 2.647 eventi pubblici, che hanno visto al lavoro 2.000 volontari, con la creazione di 150 posti di lavoro retribuiti, per un totale di 1000 visitatori al giorno che hanno condiviso gli spazi con gli oltre i 600 senza casa alloggiati.

Quello che questi numeri non riescono a raccontare è l’atmosfera gioiosa e festosa di questo luogo. Qui la politica ha accettato e vinto la sfida di accogliere in centro piuttosto che in periferia, e di fare dell’ospitalità e della creatività le leve di una res publica in cui l’architettura non è usata per determinare, chiudere, definire una volta e per tutte la forma di uno spazio, ma l’architettura è strumento per mettere in movimento l’immaginazione sociale.

In tutte le immagini dell’articolo Le Grand Voisins. Photo: Yes We Camp

About paesaggisensibili

Architect and senior fellow of the McLuhan Program in Culture and Technology of Toronto University, I'm a member of the board of directors of the Italian National Institute of Architecture (IN/ARCH) in Rome, where since 2003 I am in charge of the Institute Master Programs. My studies are rooted in the fields of architecture and philosophy of science with a special interest in biology and anthropology. Key words for my research are: Man, Space, Nature, Technique, Webness, Ecology, Relations, Interactions, Resources, Energy, Landscape, Footprint, Past and Future. My goal is to build critical understanding of the present to suggest useful strategies to build the future.

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