Response is the Medium_ Appunti per una nuova Rivoluzione Organica è pubblicato in Pensiero e Architettura Digitale, a cura di Livio Sacchi e Maurizio Unali, Skira, 2003
“Si dice anche che luoghi differenti o distanti possano comunicare tra loro attraverso un passaggio o un’apertura. Ciò che si verifica in tal caso, ciò che è trasmesso, comunicato, non sono fenomeni di senso o di significazione. Non abbiamo in questo caso a che fare né con un contenuto semantico o concettuale, né con un’operazione semiotica, ancor meno con uno scambio linguistico.” J. Derrida1
Dove stiamo andando?
Dopo la terra, il mare, il cielo, l’universo e il virtuale, che cosa ci resta da esplorare, conquistare, progettare, insomma cosa ci resta da fare?
Dopo quasi tremila anni di storia architettonica, quale soluzione spaziale, quale piegatura, incastro, curvatura, apertura, inquadratura, riquadratura, profilatura, quale nuova avventura architettonica potrà ancora farci pensare e, soprattutto, emozionare?
L’ipotesi su cui ragionerò nelle pagine seguenti è quella che a partire dagli anni 60 sino ad oggi è possibile tracciare un percorso, che ha per protagonisti essenzialmente ingegneri, artisti ed una strana categoria ibrida di ingegneri artisti, che rappresenta in modo chiaro ed illuminante l’apertura di una nuova via alla costruzione di un ‘territorio architettonico’ proprio dell’era digitale.
Infatti, ciò cui ci troviamo di fronte esaminando l’opera di Ivan Sutherland, Douglas Engelbart, Myron Krueger, Scott Fisher, Daniel Sandin e Thomas De Fanti, Maurice Benayoun e molti altri, è l’aspirazione a immaginare e realizzare nuovi modi di abitare o vivere lo spazio, in funzione e per mezzo delle nuove tecnologie elettroniche.
Ecco perchè, se vogliamo veramente cercare di capire dove stiamo andando, e in particolare in che modo i media digitali sono o possono essere rivoluzionari per l’architettura, da architetti occorre guardare oltre l’architettura (tradizionalmente intesa!), perché se è vero che gli strumenti influenzano e trasformano anche in modo radicale il linguaggio formale, la rivoluzione più profonda avviene altrove e riguarda appunto la nascita di un territorio architettonico completamente nuovo o, se volete, la nascita di una nuova forma di architettura.
Un’architettura che ha principalmente a che fare con l’esperienza, o con la ‘progettazione’, di nuove forme di convergenza o di connessione tra corpi distanti nello spazio o diversi per appartenenza di specie, tra corpi e spazio, tra cose e sensi. In altri termini, un’architettura radicalmente ed intrinsecamente mediale.
Infatti, è proprio nella capacità di mettere in comunicazione, propria tanto all’architettura in quanto tale quanto ai media veri e propri, che architettura e media si incontrano dando luogo ad un territorio che consiste nella creazione di forme di passaggio profondamente originali, forme di apertura o di interconnessione tra luoghi e corpi vicini o lontani, tra spazi reali e virtuali.
Nulla togliendo dunque al fatto che continui e continuerà ad esistere un’architettura fatta di muri e di soglie, esiste già una storia di un nuovo tipo di architettura fatta di cavi, schermi, elaboratori, sensori, membrane, articolati fra loro magari per costruire paesaggi tattili (penso al WorldScape di Marcos Lutyens), o eco sonori (vedi Darker than Night di Eduardo Kac), circuiti in cui lo sguardo individuale si trasforma in una nuova forma di sguardo collettivo (Art Impact. Collective Retinal Memory, di Maurice Benayoun).
Quello che queste opere ci propongono non sono nuovi edifici, ma sono, a tutti gli effetti, embrioni di nuovi spazi. Spazi cui fino a ieri non potevamo avere accesso, semplicemente perché essi non esistevano, perché l’essenza della loro natura è quella di una nuova coincidenza tra spazio e media, tra la natura sensibile del luogo e la natura metafisica del digitale.
E’ qui che emerge l’architettura del ventunesimo secolo: non più un gioco di scambi di pesi, di carichi e spinte (né un gioco di software e scomposizioni formali!), ma un gioco di connessioni, codici, compressioni e decompressioni di dati. Un gioco di immaginazione e progettazione di nuove forme di connetività, di accesso, di interrelazione.
In breve, un’architettura costruita intorno ad un programma radicalmente nuovo: oltre e al di là delle funzioni tradizionali, l’architettura è oggi chiamata a progettare la frontiera, l’interferenza o l’interzona tra reale e virtuale, tra materia e informazione.
Per capire più concretamente di cosa stiamo parlando proviamo a snocciolare il percorso cui abbiamo precedentemente accennato: proviamo a tracciare per grandi linee la storia, in realtà estremamente complessa, dell’incontro tra spazio e media elettronici.
A formulare per primo l’ipotesi che attraverso le nuove forme di interazione uomo macchina fosse possibile creare un nuovo tipo di spazio, è Myron Krueger. Dopo gli studi in scienze informatiche Krueger comincia ad elaborare delle installazioni che attraverso un insieme di videocamere, sensori, schermi e computer, rispondono ai gesti e i movimenti degli spettatori, creando un’originale forma di feedback tra spazio macchine e persone. Krueger nomina questi ‘circuiti’ responsive environments: ambienti sensibili o ambienti reattivi.
Nel 1977 scrive: “Gli ambienti descritti suggeriscono un nuovo medium artistico basato sull’impegno ad una interazione in tempo reale tra uomini e macchine. Il medium è costituito da sensori, display e sistemi di controllo… Così, per esempio, il movimento fisico dei partecipanti può generare dei suoni oppure la loro voce può essere usata per navigare uno spazio visivo definito al computer. E’ la composizione di queste relazioni tra azioni e risposte che è importante. La bellezza della risposta visiva o sonora è secondaria. Response is the medium!”
Certamente, l’opera di Krueger va a sua volta collocata in un contesto di sperimentazione artistica, architettonica e scientifica che almeno a partire dagli anni sessanta aveva già individuato, tanto nel nuovo ruolo del pubblico da osservatore a partecipante, quanto nelle nuove tecnologie, i due elementi fondamentali per la sperimentazione di nuove forme di occupazione artistica dello spazio, come l’happening e l’installazione, nonché di rivitalizzazione della ricerca architettonica . Ma va riconosciuto a Krueger il merito di avere esplicitato, e riassunto in una fortunata espressione, l’idea di una possibile nuova identità dello spazio radicata nella tecnologia elettronica, l’idea che l’ambiente costruito –così come l’ambiente naturale- possa divenire sensibile.
Si tratta di una svolta radicale, ovvero di una prospettiva sullo spazio (e sull’architettura come arte scienza o tecnica di progettazione e costruzione dello spazio) che per la prima volta propone una concezione ‘organica’ del costruito in una prospettiva propriamente cibernetica (e cioè in una prospettiva di simulazione del comportamento dei sistemi viventi), saldamente radicata in un orizzonte di ricerca tecnologica.
In questo senso, ciò che è più importante, oltre alla lucidità con cui Krueger individua l’elemento caratteristico di un sistema vivente -la sensibilità come capacità di cogliere le variazioni e di interagire con esse producendo delle modificazioni- è l’avere individuato la centralità stessa del medium, e della sua spazializzazione, come cardine o motore attivo della sensibilità o interattività del sistema.
L’approccio di Krueger è da questo punto di vista inequivocabile: l’elaboratore diventa il centro di un sistema, il cuore di una rete di intelligenza e sensibilità distribuita, rete la cui collocazione spaziale va accuratamente immaginata e progettata, perché soltanto così essa potrà dare vita all’inerzia dello spazio. Rete che, con i suoi organi di senso, di visualizzazione e di elaborazione, non è altro dal progetto dello spazio ma è lo strumento del progetto di uno spazio sensibile e reattivo.
Ciò che emerge dalle installazioni e dalle parole di Krueger dunque non è né una nuova immagine formale, né un nuovo stile, ma è proprio l’idea di un nuovo programma architettonico: oltre e al di là delle zone giorno e delle zone notte, la nuova architettura dovrà occuparsi di zone di interfaccia e di interattività, di zone sensibili e reattive, di zone intermediali.
Tornando al nostro percorso e alla sua evoluzione a partire dagli anni ‘60, è bene specificare che proprio la questione della sensibilità e della capacità delle nuove tecnologie di modificare la percezione umana, o di utilizzare le proprietà del suo funzionamento per stimolare la percezione nel modo voluto, era una questione centrale del dibattito di quegli anni.
Infatti, parallelamente alla possibilità di simulare i comportamenti dei sistemi viventi (attraverso l’intelligenza artificiale e la sua applicazione a forme di spazi intelligenti), si sviluppava l’idea della possibilità di simulare la realtà stessa, creando appunto dei mondi interamente artificiali che potessero dare l’impressione di ‘essere veri’, ovvero la sensazione di ‘essere lì’.
E, anche se può sembrare strano, la realizzazione del primo viaggio nello spazio virtuale precede quella di un ambiente reale aumentato da una sensibilità elettronica.
Nel 1966 Ivan Sutherland inventa l’head-mounted display, un apparato a forma di elmetto capace di immergere l’utente in un mondo simulato tridimensionale: si trattava certo soltanto di un primissimo passo, ma prima ancora di sbarcare sulla luna l’uomo riusciva così a mettere piede in una realtà virtuale, conquistando un territorio la cui forma e natura fosse interamente frutto della propria tecnica ed immaginazione.
La rilevanza di questo territorio cresce notevolmente quando nel 1980 Scott Fisher, in collaborazione con Tom Zimmerman, inventa un’ulteriore appendice o protesi tecnologica capace di dare piena tattilità alla ‘presenza virtuale’: il dataglove ovvero la possibilità di toccare e prendere cose e oggetti in un ambiente virtuale.
Erano stati necessari quasi quindici anni di riflessioni e ricerche dopo la prima passeggiata di Sutherland nel cyberspazio per riuscire a compiere questo secondo fondamentale step: quello di poter toccare, di potersi sporcare le mani col cyberspazio.
Ma intanto molte altre cose erano avvenute.
Nel 1968, Douglas Engelbart aveva presentato in una storica conferenza a San Francisco lo stupefacente prototipo di ciò che sarebbe diventato il personal computer, l’oN Line System, sviluppato all’Augmentation Research Center del Standford Research Institute: computer, monitor, tastiera e mouse, word processor e sistema di visualizzazione a finestre. Questa ‘composizione’ oggi apparentemente elementare è in realtà il frutto di una invenzione geniale, quella della spazializzazione dell’informazione sullo schermo ovvero l’invenzione del bitmapping.
L’esperienza di Engelbart come specialista di radar durante la guerra, cioè l’idea di un monitoraggio o di una mappatura elettronica dello spazio reale, si trasforma nell’alleanza tra cartografia e codice binario dello spazio virtuale dei dati/informazione, un’alleanza tra schermo e memoria del computer: bit-mapping. Per la prima volta il monitor non è più semplicemente una superficie di visualizzazione di linee di codice, ma è uno spazio bidimensionale costituito da una griglia di pixel corrispondenti a bit di informazione. Specularmene, per la prima volta i dati assumono una collocazione fisica: lo spazio delle informazioni si localizza sullo schermo.
Ma l’intuizione di Engelbart prosegue nel capire che l’alleanza tra spazio e informazione doveva diventare tangibile. Se lo schermo è uno spazio che si apre di fronte al soggetto questo deve potervi entrare ovvero deve potervi manipolare direttamente le cose: invece di digitare comandi in codice, per chiedere per esempio al computer di “aprire un file”, deve poter prendere e aprire direttamente il file attraverso il proprio indicatore di presenza, il mouse, o il puntatore, attraverso cui l’utente si muove sullo spazio dello schermo.
Ricapitolando quanto detto sin qui, la ricerca nata dall’incontro tra media elettronici e spazio si canalizza tra gli anni ’60 e ’70 almeno in tre direzioni: quella degli ambienti sensibili, quella dello spazio virtuale e quella della spazializzazione dell’interfaccia.
E anche se questa terza via potrebbe sembrare la meno interessante dal punto di vista delle sue implicazioni spaziali e architettoniche, in un certo senso essa è invece la chiave dell’intero processo: perché è qui che si concentra la ricerca sulle possibilità di evoluzione del medium che è al centro della rivoluzione, il computer, che da macchina calcolatrice si va trasformando in una nuova macchina della convergenza, convergenza tra i medium tradizionali ma più in generale tra materia e informazione, tra reale e virtuale.
Dal punto di vista architettonico, al di là delle conseguenze fondamentali che il nuovo schermo bitmapped ha sulle possibilità di manipolazioni vettoriali delle forme di rappresentazione, il fatto più rilevante è che tutte e tre le linee di ricerca ci parlano dell’emergenza di nuove zone di spazio: una zona puramente virtuale, interamente frutto della fantasia e delle capacità del suo creatore, potenzialmente svincolata dalle leggi della fisica e da ogni limitazione materiale; una zona ibrida, caratterizzata dall’interazione tra reale e virtuale attraverso la realizzazione di uno spazio reale elettronicamente aumentato; ed una zona di interfaccia che si configura come quella nuova zona intermedia tra medium e messaggio, tra elaborazione ed informazione.
Facciamo un salto dalla storia di ieri a quella di oggi per considerare alcuni esempi concreti e temporalmente vicini a noi di queste nuove specie di spazi.
Osmosi di Char Davies è un’installazione che propone un’immersione in un universo virtuale basata su un processo di “de-automatizzazione della sensibilità percettiva” dal momento che per spostarsi in questo mondo vegetale occorre concentrarsi sulla propria respirazione e sensazioni cinestetiche, in una sorta di remapping sensoriale che richiede un processo di osmosi con la realtà virtuale per poterla conoscere. Osmosi è quindi un esempio di progettazione estremamente affascinante ed articolata di una zona di spazio puramente virtuale.
Una casa intelligente, come quella che abbiamo visto in molti film di fantascienza, in grado di rilevare la presenza di un visitatore e di identificarlo come conosciuto o sconosciuto, e di interagire conseguentemente attraverso un’interfaccia naturale, riconoscendo i gesti e il parlato dell’interlocutore ed innescando relativi processi di risposta, è un esempio molto semplice di spazio aumentato da una sensibilità elettronica. Un’applicazione estremamente interessante in questo senso è quella avviata dall’Università di Medicina di Rochester, per realizzare una casa sensibile alle funzioni vitali dei suoi abitanti, dunque un ambiente capace di monitorizzare, memorizzare ed elaborare dati relativi alle condizioni fisiche dei suoi abitanti: da informazioni relative a temperatura, battito cardiaco, pressione, colesterolo, ad informazioni relative per esempio allo monitoraggio della pelle.
E’ chiaro comunque che, al di là dell’idea più immediata che ha ormai catturato l’immaginario collettivo, la problematica più profonda annidata nei concetti di sensibilità o intelligenza di un edificio è quella relativa alla sua sostenibilità ecologico ambientale, per esempio attraverso la produzione oltre che il consumo di energia con processi non inquinanti e rinnovabili. E in questo senso è interessante segnalare il progetto di Francois Roche per un edificio per uffici per l’EDF, fornitore nazionale dell’energia elettrica francese. L’idea guida dell’(UN)Plug Building è precisamente quella che l’architettura diventi non solo un luogo di consumo d’energia ma anche un luogo generatore di energia da immettere nel network, attraverso una pelle architettonica ‘reattiva’ al contatto con l’energia solare. Se la caratteristica fondamentale della materia vivente è la capacità di auto-organizzarsi contrastando la tendenza all’entropia, producendo nuove forme di ordine, l’edificio di Roche ci parla di una nuova architettura, se non organica, certamente postorganica, dove la materia tradizionalmente inerte del costruito dà vita ad uno dei processi più importanti per la sopravvivenza del nostro mondo, il fotovoltaico, l’utilizzo della radiazione solare per generare elettricità.
Rimanendo in tema di membrane, La Membrane, di Maurice Benayoun è invece un esempio eccellente di pura zona di interfaccia: una superficie abbastanza profonda ed articolata da permettere all’informazione che la abita (testi, immagini e sequenze video) di ristrutturarsi dinamicamente in funzione dei comportamenti dell’osservatore. Immaginata come dispositivo centrale dell’esposizione “L’homme transformé” alla città della scienza di Parigi ed inspirata alla membrana organica della cellula vivente, La Membrane è costituita da un insieme di superfici e di sensori: quando il visitatore si avvicina la prima superficie lascia apparire la seconda col suo contenuto, se il visitatore presta attenzione restando fermo di fronte allo schermo, un altro livello di profondità, o di approfondimento dell’informazione, diventa visibile (una terza superficie) in un processo continuo ed in evoluzione.
E’ evidente che qui siamo di fronte ad un nuovo stadio di evoluzione del rapporto tra soggetto e spazio delle informazioni: non parliamo più di una relazione monitor utente ma di una relazione che ha luogo nello spazio reale con un corpo puntatore i cui movimenti dicono naturalmente all’interfaccia schermo se quell’argomento interessa e va approfondito o se è meglio lasciar perdere…
Ma all’origine di questa particolare zona di interazione è proprio quella terza via di relazione tra computer e spazio individuata da Engelbart e pienamente sviluppata da Alan Kay con la messa a punto dell’interfaccia grafica nel 1970.
A kay dobbiamo infatti l’idea delle icone e cioè l’idea che ad uno schermo mappato potessero corrispondere dei segni che fossero a loro volta metafora di ciò che normalmente sta nel nostro spazio: primo tra essi il desktop, la scrivania. E proprio come sulle nostre scrivanie si sovrappongono fogli e documenti, così Kay trasformò l’intuizione di Engelbart delle finestre come partizioni dello schermo in un sistema di sovrapposizione di piani che potevano essere avvicinati –portati in primo piano- o allontanati, dando così una nuova profondità allo spazio bidimensionale dello schermo.
La metafora non cambia moltissimo nella Membrana di Benayoun ma, fatto interessante, anche in questo caso si organicizza, sostituendo al meccanicismo della sovrapposizione dei livelli, il metabolismo del comportamento dinamico della cellula vivente.
Il medium si ristruttura insieme al messaggio ed entrambi non fanno che rispondere ad una sollecitazione.
Del resto anche in un ambiente totalmente virtuale, perché l’illusione si realizzi, ovvero perché il soggetto senta veramente di essere nello spazio simulato dimenticandosi della sua virtualità, l’elemento più importante è proprio la continua capacità di risposta in tempo reale della simulazione all’azione del soggetto: movimento del capo, modificazione del punto di vista, e così via… Un principio che in Osmosi si complica con il coinvolgimento di azioni normalmente involontarie del soggetto, come la respirazione, come meccanismo trainante del processo di navigazione.
Tornando per un attimo a Myron Krueger e all’idea di responsive environment, al di là della specificità delle tre strade di ricerca che sembrano essere nate dall’incontro spazio computer, sembra quindi essere emersa una caratteristica di fondo che assimila le tre prospettive: l’interattività intesa come sensibilità o come una nuova forma di continuità organica o di possibilità di interazione tra corpo e spazio, tra edificio e ambiente, tra cose e cose.
Organica perchè pensare all’interattività in senso puramente meccanico e in termini deterministici di input/output non ci porterebbe probabilmente molto lontano. Al contrario l’idea contenuta nella brillante espressione responsive environments è quella di una interattività concepita dal punto di vista della sensorialità, della sensitività, della sensibilità in senso lato: come rimettersi in gioco del corpo, dei sensi, della percezione e dell’io. Un’idea che ci catapulta in una problematica completamente nuova (anche se paradossalmente con molti punti di contatto con le forme più antiche del sentire e del concepire il rapporto uomo spazio) che a ha che fare con la riscoperta del corpo come sistema vivente e ‘aperto’: in continuo scambio di energia e informazione con l’ambiente.
Come ha chiaramente messo in luce Roy Ascott “Le tecnologie transpersonali della telepresenza, del networking globale e del cyberspazio, potrebbero stare stimolando e riattivando parti di un apparato della coscienza a lungo dimenticato… La Cyberception potrebbe significare un risveglio dei nostri poteri psichici latenti, della nostra capacità di uscire dal corpo o di entrare in simbiosi mentale con altri”.
Chi ha guardato con paura la presunta freddezza delle nuove tecnologie è invitato ad aprire gli occhi (o a cominciare a sperimentare la propria estensione sulla rete): la connettività ha una carica sensoriale talmente forte da far facilmente perdere la testa!
Ma ciò a cui Ascott fa riferimento è qualcosa di più profondo, di più antico, di più problematico. Pensando allo spazio noi oggi pensiamo tendenzialmente ad un vuoto, a qualcosa di omogeneo ed isotropo, privo sostanzialmente di qualità, di potere, di anima, qualcosa di silenzioso ed indifferenziato. Così come pensando al corpo, diamo per scontata l’unitarietà dell’io e la sua separazione da ciò che lo circonda, con una chiara linea di demarcazione tra dentro e fuori, ciò che io sono e ciò che io non sono, dove sono e dove non sono, il tempo esatto in cui mi trovo e così via.
Eppure, questo modo di sentire e di pensare, la realtà, il tempo, il corpo e lo spazio, non sono chiaramente dei dati assoluti. Pensate al nomade del deserto e al suo senso dello spazio! Pensate agli sciamani dei nativi d’america…
E’ evidente che noi costruiamo la nostra sensibilità e razionalità in modo molto simile a come costruiamo un edificio, ma probabilmente con tempi molto più lunghi, quelli della storia e del succedersi delle generazioni.
E ciò su cui Ascott ci invita a riflettere è precisamente una possibile nuova ‘variante’ del nostro edificio mentale. In altre parole, è probabile che ci si stia oggi movendo verso una nuova consapevolezza dello spazio: lo spazio come campo attivo, come luogo di tensioni attrazioni scambi interazioni.
Da questo punto di vista parlare di interattività e sensibilità elettronica del costruito, significa propriamente parlare di connettività.
Ragioniamo prendendo in considerazione l’installazione di un artista, Eduardo Kac, dal nome Essay Concerning Human Understanding, citazione del saggio del 1690 del filosofo inglese John Locke.
L’installazione prevede la connessione via Internet di due spazi espositivi che ospitano l’uno un canarino in una gabbia, l’altro una pianta. Il canto del canarino viene trasmesso nello spazio in cui si trovava la pianta. Tramite un sensore applicato alle foglie e attraverso un software, progettato per l’analisi delle onde cerebrali dell’uomo, le fluttuazioni del voltaggio elettrico della pianta vengono monitorate; le informazioni relative alla risposta elettrica della pianta alimentano a loro volta un altro computer che controlla un sequenziatore MIDI (ovvero un’interfaccia digitale per strumenti musicali) producendo così una risposta sonora della pianta al canto del canarino. I suoni elettronici mandati dalla pianta all’uccello sono preregistrati, ma l’ordine e la durata vengono determinati in tempo reale dalla risposta della pianta allo stimolo sonoro.
Riassumendo questa installazione realizza uno scenario interattivo, dove convergono –attraverso l’interazione ‘mediata’ e a distanza- spazio fisico e spazio telematico, e dove, a livello simbolico, convergono specie di vita differenti, producendo uno scenario comunicativo interspecifico.
Questa nuova possibilità di convergenza o di circolarità, tra cose fisicamente lontane (come i due spazi espositivi con la pianta e l’uccello) o tra elementi strutturalmente differenti (forme di vita diverse come quella animale e quella vegetale), questa possibilità di interconnessione, radicata nell’intermediazione della tecnologia elettronica, è quanto possiamo indicare con la parola connettività o webness.
L’installazione non intende ovviamente affermare che tra l’uccello e la pianta sia in atto uno scambio di significati ovvero che ci sia una forma di comprensione reciproca, ma piuttosto il fatto che oggi è possibile non solo rilevare e rendere esplicita una reazione (quella della pianta) di cui non potevamo precedentemente avere idea (o consapevolezza), ma anche interfacciare le due cose riportandole ad un codice comune in cui è possibile una forma di interazione. Il canarino infatti sollecitato dalla risposta sonora della pianta, produrrà a sua volta una forma di risposta a questo stimolo sonoro.
L’installazione di Kac con la carica metaforica dell’arte, mette in luce la mutazione (teorizzata da Ascott) che sta caratterizzando la nostra esperienza del mondo: la convergenza tra gli elementi tradizionali del reale e l’infrastruttura tecnologica crea le condizioni per forme di dialogo o di interazione assolutamente originali.
Il punto è che sempre di più l’effetto dei media digitali ha a che fare non soltanto con un’estensione o amplificazione della mente (secondo la linea di pensiero Mc Luhan/ de Kerckhove10), ma precisamente con una riorganizzazione del rapporto tra la mente e la realtà ovvero tra lo spazio interno dell’uomo (e il suo interno modello del mondo), e lo spazio esterno, ovvero il mondo delle cose e di tutto ciò che è altro dal soggetto.
Infatti, se il rapporto tra l’uomo e il mondo –o tra il corpo e lo spazio– che ha caratterizzato per secoli la coscienza dell’uomo occidentale, è stato basato sulla contrapposizione tra ciò che era interno e apparteneva al corpo e ciò che era esterno e apparteneva ad una ‘realtà’ esterna, oggi questo dualismo sembra essere messo radicalmente in discussione dalla capacità dei media digitali di connettere, di interrelate o di mediare in senso profondo quelle che prima erano cose, entità o spazi distinti, come, ripeto, lo spazio del soggetto e lo spazio del mondo.
Per mettere i piedi per terra facciamo un esempio banale: per molto tempo abbiamo pensato che l’aprirsi di una porta davanti a noi potesse essere soltanto il frutto o di una azione fisica, cioè di qualcosa come la nostra mano che entrasse in contatto con la porta e la spingesse, o di un’azione elettronica dovuta ad un semplice sensore che rilevasse un passante nel suo raggio d’azione e facesse scattare il relativo attuatore di apertura della porta.
Ma il caso vuole che la nostra ‘volontà’ di far aprire una porta, corrisponda all’attivarsi di certe correnti o segnali nel nostro cervello, che opportunamente indirizzati raccolti amplificati e ricodificati, possono oggi diventare un modo nuovo di aprire una porta, toccandola con la forza del pensiero!
Una recente forma di applicazione del biofeedback per esempio, oltrepassando gli obiettivi tradizionali di questa tecnica di consapevolezza e controllo di funzioni corporee abitualmente inconsce, comincia ad applicare la possibilità di determinare –in parte- l’uscita elettrica del cervello per connetterla a quella dei computer. Computer a loro volta collegabili ad elementi nello spazio fisico che possono così essere direttamente controllati attraverso comandi mentali.
Ovviamente l’utilizzo di quello che viene chiamato biomouse –e che può basarsi tanto sul controllo e la modifica dell’ampiezza dei segnali elettrici del cervello come dei segnali elettrici emessi dai muscoli o dagli occhi- può avere un ruolo eccezionale nel caso di particolari disabilità o totale immobilità dell’utilizzatore, consentendo una forma di connessione elettromagnetica non soltanto con la macchina ma con tutto ciò che alla macchina può essere interconnesso. Anche in questo caso ciò che avviene nello spazio è un’inedita forma di dialogo o di continuità tra l’essere vivente e l’ambiente, tra il corpo, la mente, la macchina e tutto ciò che vi può essere interconnesso.
Per altro non si tratta in realtà di nulla di più artificiale dell’uso articolato delle dita, della voce o dei gesti. Ma si tratta di esplorare una frontiera del nostro corpo che ci è ancora sostanzialmente sconosciuta e che, nell’era dell’elettronica può avere un’importanza radicale.
E se questa non vi sembra una questione sufficientemente ‘spaziale’ da essere una questione architettonica, vi invito a riflettere sul fatto che la possibilità di una connessione di questo genere tra il corpo (e la sua natura bio-elettronica) e il nostro spazio costruito è una vera e propria rivoluzione che si agita per il nostro spazio.
Per il momento l’apparato tecnologico necessario a captare i nostri segnali e a farli colloquiare con un sistema ricevente, è ancora abbastanza complicato. Ma tutto lascia pensare che questa complessità sia destinata, se non a ridursi, quantomeno a miniaturizzarsi fino a scomparire. All’interno del corpo e delle cose.
Ma forse conviene cercare di essere più specifici e guardare fino in fondo le possibili implicazioni architettoniche di questa nuova forma di rapporto corpo spazio. Perché all’insaputa o nel disinteresse della maggior parte degli architetti, scienziati ingegneri e artisti non hanno smesso di darsi da fare, e se in questi anni hanno lavorato per scoprire e costruire nuove zone di spazio, oggi è in agguato la creazione di una zona al di là di ogni aspettativa.
Spingendo ancora più in là gli orizzonti della ricerca, entriamo nel territorio della neuroscienza, e ragioniamo sull’esperimento realizzato dal Medical Center della Duke University di Durham, osservandolo nell’ottica del dove stiamo andando…
L’esperimento prevedeva la connessione tra i cervelli di due piccole scimmie e un sistema di computer intermediari tra l’attività cerebrale delle scimmie e il movimento di alcuni bracci robotici la cui azione permetteva alle scimmie di raggiungere del cibo.
In breve, un sistema di elettrodi applicati in molte regioni della corteccia, inclusa ovviamente la corteccia motoria, ha –per due anni- nutrito di informazioni sui tracciati neurali corrispondenti ai gesti delle scimmie un sistema misto di computer tradizionali e reti neurali artificiali, permettendo così al sistema di sviluppare la capacità di predire la traiettoria di un movimento e così, successivamente, di trasmettere l’informazione necessaria per tradurre quel movimento in istruzioni per il braccio meccanico in tempo reale.
L’esperimento è stato ulteriormente sviluppato con la trasmissione dei dati via Internet con l’attivazione, sempre in tempo reale, di un altro braccio meccanico nei laboratori del MIT.
Ma il fatto più significativo di questo evento non è certo la sua dislocazione via Internet. Infatti, se un primo aspetto applicativo fondamentale è quello della possibilità di azionare protesi meccaniche attraverso il controllo neurale, l’aspetto forse più problematico e affascinante di questa ricerca riguarda le implicazioni teoriche di quella che è oggi la forma di convergenza più intima e radicale di cui è possibile parlare.
Ovvero, la convergenza che si realizza a livello cerebrale tra la protesi, esterna e separata dal corpo, e il ‘modello del corpo’ nel cervello.
Infatti, dal momento in cui sarà possibile realizzare un circuito chiuso in cui il cervello controlli una protesi/strumento e questo strumento trasporti a sua volta informazioni al cervello –ovvero diventi insieme un esecutore di comandi ed una fonte di informazioni fornendo al cervello un feedback sull’ambiente in cui si trova– è ormai ragionevole pensare che nel suo continuo processo di aggiornamento e adattamento, il cervello dedicherebbe uno spazio neurale per rappresentare quello strumento, che diverrebbe quindi a tutti gli effetti parte di un corpo esteso e disseminato nello spazio.
Ovviamente, la possibilità di connettere la mente in modo complesso e molteplice a nuove entità non soltanto meccaniche ma addirittura esterne e lontane dal corpo, ovvero di connettere il corpo stesso non più secondo principi di continuità fisica ma secondo il principio di una continuità elettromagnetica, è una prospettiva che rivoluziona completamente il rapporto tra la mente e la realtà.
Infatti se, come affermano gli studi più recenti, il cervello riesce a fornire una risposta stabile nonostante la sua natura in continua evoluzione perché sembra contenere una sorta di ‘modello interno’ del mondo, che esso paragona costantemente alle nuove esperienze verificando così quali segnali provenienti dall’ambiente possono essere ignorati e quali invece vanno incorporati e usati per aggiornare il proprio modello, la possibilità di una protesi ‘virtuale’ –esterna e lontana dal corpo- non soltanto implica come detto una modificazione radicale di questo modello neurale, ma apre le nostre prospettive di ricerca verso un’incognita radicale.
Infatti, se un elemento esterno e altro dal corpo può essere incorporato nel modello interno del cervello, programmando protesi virtuali svincolate dalle leggi della fisica, queste protesi come verrebbero rappresentate nel cervello?
E nella prospettiva della possibilità di aumentare i nostri corpi nello spazio virtuale, come si modificherebbe la nostra struttura cerebrale, e soprattutto, come si modificherebbe in generale il nostro modo di essere stabilendo connessioni dirette e capaci di feedback tra il cervello ed una protesi in uno spazio virtuale, per esempio multidimensionale?
Da questo punto di vista, la condizione di nuova connettività o webness che oggi cominciamo a vivere e sperimentare, sembra forse preludere a ciò che si configura come una nuova estrema multidimensionalità dell’essere…
Tornando dunque alla domanda iniziale sul dove stiamo andando, ancora una volta direi che l’incontro tra architettura e media digitali porta l’architettura oltre l’architettura, o meglio oltre il territorio tradizionale dell’architettura, della progettazione e dell’architetto.
Riprendendo la frase citata all’inizio di Derrida, al di là delle questioni tradizionali, il problema radicalmente nuovo che oggi investe il progetto è quello di immaginare e realizzare forme di apertura, di connettività, di passaggio tra reale e virtuale, tra la dimensione fisica del costruito e la dimensione elettronica dell’informazione. In altri termini, immaginare un’architettura sensibile, all’uomo e a tutto ciò che la circonda.
Il problema è quello di ricominciare a pensare lo spazio non più come vuoto ma come media, come soggetto interattore e cioè come tramite di un flusso continuo di informazioni in un circuito interspecifico tra soggetti e oggetti, persone e cose, spazio interno ed esterno, spazio reale e virtuale.
Ecco perché l’architetto che oggi voglia stare al passo con la rivoluzione digitale deve acquisire strumenti ben diversi dalla progettazione assistita dal computer ed assumersi così la responsabilità di non restare fuori dal circuito generato dalla rete digitale, per tornare ad esserne l’archè, il principio, l’intelligenza, il webmaster.
La direzione verso cui andare è chiara e limpida: mattoni e cemento non bastano più, bisogna lavorare con reti e circuiti, bisogna inventare sistemi per spazializzare l’informazione in modo nuovo, sempre più stimolante ed efficace.
Ma attenzione, il punto non è mettere un CAVE al centro del proprio progetto acquistando un sistema preconfezionato!
Il punto è che bisogna far diventare la progettazione stessa del CAVE il vero centro del progetto, il cuore pulsante a partire dal quale rimodellare uno spazio attivo, dove zone ibride (spazi sensibili) e zone di interfaccia (zone di spazializzazione dell’informazione, come un CAVE o superfici membrana come quella di Benayoun) colloquino con zone di immersione pura e cioè con paesaggi virtuali (come Osmosi, WordScape…) che rimettano in gioco tutta la nostra capacità percettivo sensoriale, preparandoci a forme di immersione e di connettività sempre più strabilianti e profonde, alla scoperta di zone di spazio che adesso non riusciamo nemmeno ad immaginare.
1 Jaques Derrida, Firma
Evento Contesto,
in Margini,
Einaudi, Torino, 1997